A cosa ti serve il coaching?
Ci siamo lasciati nella pagina precedente con una domanda a cui vorrei ti prendessi il tempo di rispondere
A cosa ti serve il coaching? Cosa vuoi fare con il coaching?
Vuoi il diploma di coaching perché è un sogno che coltivi da tanto tempo, ma comunque per te il coaching è più che altro una curiosità intellettuale e quello che tutto sommato vuoi è frequentare un corso con dei compagni simpatici ed avere, nella migliore delle ipotesi, qualche cliente ogni tanto?
Vuoi apprendere delle competenze che ti consentiranno di guidare il tuo team a migliorare le performance in azienda?
Vuoi migliorare le TUE performance, oppure imparare a prendere decisioni migliori?
Vuoi essere un coach professionista, e quindi avviare la tua pratica con i clienti e vivere solo di questo?
Vuoi imparare a parlare in pubblico per motivare gli altri?
Come vedi tutte queste motivazioni sono valide e sono allo stesso tempo molto diverse tra loro.
Mi occupo da diversi anni a tempo pieno di coaching, disciplina che ho esplorato da diverse angolazioni e con tanti approcci diversi. Se sei curioso di leggere la mia storia, la trovi qui.
C’è stato il periodo – ormai parecchi anni fa – in cui sono stato un trainer di PNL ed in cui nello stesso tempo esploravo le discipline corporee studiando alcune arti marziali, poi lo shiatsu ed il feldenkrais, il coaching motivazionale, e così via.
Ho studiato – per 10 anni ho fatto solo quello a tempo pieno – molto di quello che esiste nel settore della trasformazione personale, spesso in giro per il mondo per apprendere dai migliori.
Ma allo stesso tempo continuavo anche ad osservare di quello che succedeva nel mondo della formazione con un occhio critico che valutava cosa succedeva davvero nei corsi che avevo la possibilità di frequentare.
E quello che osservavo riguardo il coaching erano due cose.
La prima è che molti studenti che si diplomavano in una qualsiasi scuola di coaching avevano una idea piuttosto vaga di cosa volevano fare dopo aver terminato il corso.
La seconda è che queste stesse persone si rendevano conto molto presto che utilizzare nel mondo reale, con clienti reali le tecniche che avevano imparato era molto più complicato rispetto a farlo in una ‘simulata’ nell’aula di corso.
Si rendevano conto, per esempio, che le tecniche motivazionali, generano nei clienti azioni disordinate e che producono risultati sì, ma spesso con una portata limitata nel tempo e nella profondità.
Che la PNL andrebbe usata con la maestria che pochi tra i veri maestri hanno la voglia di trasferirti e di farti acquisire e che comunque risolve ‘solo’ problemi… non genera una vera trasformazione che si autosostiene nel tempo.
Che il coaching vecchio stampo anni ’70 è decisamente mentale e razionale e non tocca l’essenza della persona. Inoltre è più adatto ad una audience americana – meno sofisticata e critica – che ad un italiano che ha un background culturale, sociale e psicologico completamente diverso.
E così via.
Quindi poca chiarezza di idee su cosa si vuole + rendersi conto di non essere ancora abbastanza efficaci.
Cosa succedeva dopo ‘essere diventati coach’?
Succede che il nostro neo-coach nel tentativo di diventare più efficace continuava a studiare ed a passare da un corso all’altro, cercando di imparare NUOVE TECNICHE che avrebbero potuto fargli ottenere più risultati con i clienti.
E che corso dopo corso questi risultati non crescevano di pari passo con le aspettative e con l’impegno profuso.
Insomma la sensazione che aveva era sempre quella che manca qualche ‘pezzo’ di conoscenza, qualche informazione, qualche ‘tecnica segreta’ in grado di farlo diventare più bravi.
Si esercitava a fare coaching con i propri colleghi di corso
…magari rifrequentando la propria scuola di origine
…MAGARI iniziando anche a fare da assistente a qualche corso ed ‘accreditandosi’ al mondo come insegnante.
E diventa velocemente una persona che sa molte cose sul coaching, ma incontra qualche difficoltà ad essere efficace nel coaching.
Sapere tante cose, essere poco efficace.
Non è la situazione più entusiasmante del mondo, no?
E in questa situazione, cosa pensa il cliente?
In tutta questa situazione il cliente finale, quello che si reca dal un coach (e lo paga) per ottenere un risultato…
…sinceramente rimane un po’ perplesso.
Infatti il cliente finale non è appassionato di coaching…
A differenza del coach a lui del coaching non interessa niente.
Il cliente è interessato a cosa può fare il coaching per lui.
Il cliente non ha nessuna intenzione di frequentare corsi, appassionarsi a qualcosa che è solo un strumento…
Lui vuole risultati.
E se non arrivano, dopo l’entusiasmo iniziale inizia a farsi strada lo scetticismo e l’indifferenza verso il coaching.
A quel punto per il nostro neo-coach vivere di coaching diventa più difficile. Se prima il mondo sembrava pieno di persone che sarebbero diventati presto suoi clienti, si rende ben presto conto che tutto sommato fare coaching gli viene bene soprattutto quando lo fa con chi è già un coach o si sta appassionando alla materia.
Un mondo che parla solo a se stesso, appunto.
[Continua con la 3 parte: Coaching Livello 3…]