Sono un po’ di anni che lavoro sull’idea che il modo in cui si percepisce il tempo determina in buona misura i risultati personali e professionali che si ottengono.
Una delle idee sul tempo è che ci sono due modalità di percepirlo:
Una è quella tempo dell’orologio. È quella che i greci chiamavano Chronos – il tempo fisso, misurabile, prevedibile. Vivere nel tempo dell’orologio significa ritagliare il tempo in unità fisse. Gli impiegati all’interno delle organizzazioni operano nel tempo dell’orologio.
Poi c’è il tempo narrativo, quello che i greci chiamavano Kairos – il tempo che si sposta quando succede qualcosa. Vivere nel tempo narrativo significa ritagliare il tempo in eventi, in cose che succedono.
Un imprenditore o un professionista probabilmente, quando è nella professione, opera sul tempo narrativo.
I dipendenti guardano l’orologio. È quasi la caratteristica che definisce il lavoro a tempo pieno: essere all’interno di una struttura che funziona a ritmi prevedibili e misurabili. 40 ore a settimana. 60 ore a settimana. Quelle cose lì.
Questo non è un caso. L’orologio fornisce sicurezza psicologica e prevedibilità al lavoratore e fornisce leggibilità e controllo al datore di lavoro. Fa parte del “lavoro da fare” del lavoro a tempo pieno – fornendo ai dipendenti una protezione dal tempo narrativo.
I dipendenti sono assunti, pagati e misurati in un tempo fisso e misurabile.
Questo crea aspettative e tempi all’interno di un’organizzazione – per esempio è tipicamente contro le regole per qualcuno chiedere un pezzo di lavoro con meno di un giorno per la consegna.
Tuttavia, più in alto si va nell’organizzazione, più è necessario operare al di fuori dell’orario di lavoro. I dirigenti sono tipicamente a cavallo tra il tempo dell’orologio e il tempo della narrazione, che è in parte il motivo per cui essere un manager/leader può essere così difficile.
Non c’è la sicurezza psicologica del tempo d’orologio e si vive secondo il tempo narrativo.
Non ci si può nascondere dietro la descrizione del proprio lavoro o le priorità assegnate – quando qualcosa deve accadere, deve accadere, e si deve trovare un modo per farlo funzionare (spesso senza sconvolgere troppo il tempo dell’orologio del propria team)
I dirigenti capiscono già che la produttività misurata in tempo non ha senso – non ci si può nascondere dietro “ho fatto il lavoro che mi avete chiesto in tempo”. Ci sono cose che non funzionano in base all’orario -ma hanno movimenti e velocità non lineari. Tutto fermo per settimana poi in due giorni si scatena l’inferno.
Come consulente strategico a volte capire la percezione del tempo di un cliente mi permette di capire anche dove risiedono i suoi limiti a trasformare i propri risultati.
Molte volte le resistenza a trasformare processi e contenuti all’interno di una attività dipendono proprio dal fatto che il cliente ha una idea – in base a quello che succede adesso – dell’unità di tempo necessaria per ‘far avvenire le cose’ nella propria vita o nella propria attività.
Cambiare i processi a volte genera una resistenza non tanto per una non meglio identificata ‘paura del nuovo’, ma perché comporta il riallinearsi su intervalli di tempo diversi da quelli a cui sono abituati.
Non sapete quanto volte mi sono sentito dire da un cliente
“Eeeeh ma così ci vuole più tempo’
“Così non si finisce mai”
“Non abbiamo tutto tempo per implementare questo processo”
Non capendo che la ristrutturazione che gli era proposta avrebbe fatto risparmiare dieci volte il tempo che impiegavano allora e generato risultati 10 volte maggiori.
Solo che per farlo dovevano interrompere il ritmo usuale di sforzo-risultati a cui erano abituati.
Ogni volta che sentite dire da un cliente qualche frase che contiene la parola tempo… alzate le antenne perché c’è qualcosa di interessante da capire.
Ne parliamo prossimamente.